“Ah! Questo è l’imperscrutabile Bitinia!”. Così esclamò Tennyson quando vide un busto di Antinoo mentre passeggiava al British Museum con un giovane Edmund Gosse, che registrò l’episodio in Portraits and Sketches (1912). Fissando gli occhi del ragazzo favorito dall’imperatore Adriano, il poeta disse: “Se sapessimo quello che sapeva lui, dovremmo capire il mondo antico”. Tra le 88 sculture di Antinoo che sopravvivono dal secondo secolo d.C. – tante quante ne rimangono delle mogli imperiali e delle principesse dell’epoca – e le innumerevoli imitazioni moderne, il giovane emerge come modesto ma sensuale, divino ma decisamente in carne. L’imperscrutabile Bitinia, infatti.
Passando attraverso ‘Antinoo: Ragazzo fatto Dio’, un piccolo ma sostanziale spaccato di questa tradizione attualmente in mostra all’Ashmolean, si potrebbe essere scusati per aver confuso una delle 20 rappresentazioni del ragazzo con qualsiasi atleta o dio greco. Come suggerisce il sottotitolo della mostra, la confusione è significativa, poiché dopo la sua misteriosa morte nel fiume Nilo nel 130, all’età di circa 19 anni, Antinoo fu onorato come un eroe e poi venerato come un dio in alcune parti del mondo romano fino al quinto secolo in un culto che, per alcuni nervosi primi cristiani (come Origene di Alessandria), rivaleggiava con il nascente culto di Cristo. Ma c’è qualcosa di distinto nel “tipo” Antinoo, il ritratto ufficiale commissionato da Adriano dopo la morte del suo favorito – qualcosa che, una volta svanito il ricordo della relazione omosessuale tra Antinoo e Adriano, fece impazzire i collezionisti del Rinascimento, fece aprire i portafogli ai turisti, e ispirò Winckelmann a doppiare un ritratto di Antinoo “la gloria e la corona dell’arte dell’epoca, così come qualsiasi altra”.
(A sinistra) Busto di Antinoo, scoperto a Balanea, Siria, nel 1879, prima che fosse restaurato. (Destra) Il busto restaurato.
Il pezzo forte della mostra è il busto siriano di Antinoo (130-138 circa), uno dei migliori esempi sopravvissuti del tipo e l’unico che porta un’iscrizione identificativa originale. Poco più grande della grandezza naturale, il ragazzo (tecnicamente non ancora uomo – una distinzione, come nota il catalogo, che ha a che fare con l’assenza di peli pubici) distoglie modestamente lo sguardo. Con il suo naso lungo e dritto, le labbra che si toccano delicatamente e il mento elegante, sembra Hermes, o Apollo, o un giovane Dioniso, e infatti è stato ritratto come tutti e tre in varie sculture – ciò che R.R.R. Smith nel catalogo chiama “equivoci” del tipo. Stando vicino a questo busto, che è montato all’altezza degli occhi, non è difficile immaginare, come disse Oscar Wilde nella sua poesia “The Sphinx”, il “corpo d’avorio di quel raro giovane schiavo con / la sua bocca di melograno”.
Antinous è sempre al limite dell’irriconoscibilità, in bilico tra equivoci, tra forme particolari e idealizzate. L’oggetto dell’iperbole di Winckelmann – il cosiddetto Albani Antinous – è il più idealizzato di tutti, e doppiamente idealizzato nel fantomatico calco in resina bianca esposto nella mostra dell’Ashmolean. Mostra il ragazzo di profilo, che indossa un alloro e ne afferra un altro nella mano sinistra; la sua destra emerge dal rilievo, vagamente aperta, come se tenesse le redini di un carro. Winckelmann immaginava che stesse guidando fuori da questo mondo verso la sua apoteosi – un’allegoria del potere dell’arte di elevare l’umano al divino.
Cast di un rilievo raffigurante Antinoo a Villa Albani, Tivoli. Ashmolean Oxford
Anche dalla piccola collezione riunita all’Ashmolean – una rara e soddisfacente opportunità di studiare a fondo la rappresentazione di una singola figura – si sviluppa un forte senso del volto di Antinoo, del suo collo e, in particolare, dei suoi capelli. Tutte le versioni, indipendentemente dalle dimensioni o dal costume, condividono la stessa criniera rustica e caratteristicamente “orientale”. Questa insolita pettinatura è un criterio chiave usato per identificare la sua immagine sulle monete antiche, ed è stata imitata fedelmente nel Rinascimento, in particolare da Giovanni da Cavino, che ha ricreato monete corinzie di Antinoo nel XVI secolo, due delle quali sono in mostra. Anche in una massiccia replica in resina di una statua nella villa di Adriano a Tivoli, Antinoo, vestito con i tradizionali abiti egizi e posato con un piede in avanti come un faraone, mantiene il suo particolare fascino fanciullesco, nettamente diverso da una testa di marmo di Germanico, il successore designato di Tiberio, che morì nel 19 d.C. e fu onorato in tutto l’impero proprio come Antinoo un secolo dopo. (Il busto di Germanico in mostra e un altro di Adriano si sentono come una coppia di intrusi in una stanza dominata da una sola faccia). Parte di ciò che significava essere fatto un dio, sembra, era essere in grado di assumere qualsiasi forma, come un camaleonte, pur conservando un’identità che trascende lo stile, la forma d’arte, o – come mostra la mostra, che è in gran parte composta da calchi – il materiale.
(A sinistra) Moneta di Antinoo da Smirne (134-35 d.C.); (a destra) Gemma di Antinoo Marlborough (1760-70), Edward Burch; Ashmolean Museum, Oxford (entrambi)
‘Antinoo: ragazzo fatto Dio’ finisce, in termini cronologici, nel XVIII secolo. La mostra sembra invitarci a guardare con uno sguardo da museo, presentandoci una ricca tradizione visiva. Venti Antinouses ci guardano come tante farfalle, racchiuse nel vetro, astratte dal mondo sociale in cui sono state prodotte. Così facendo la mostra elude un aspetto di queste e altre sculture classiche che, nel XXI secolo, non possiamo fare a meno di affrontare: l’oggettivazione erotica di un ragazzo. È una questione scomoda. Guardando il corpo nudo di Antinoo, e il busto di Adriano (che guarda il suo favorito dall’altra parte della stanza), dobbiamo semplicemente considerare le implicazioni dell’arte che memorizza, e ci permette in qualche modo di partecipare a una relazione sessuale tra l’uomo più potente del mondo e un ragazzo (che in alcune tradizioni era uno schiavo). Questa dominazione dell’impotente da parte del potente, del barbuto Antinoo da parte del barbuto Adriano, ha dato a molti un certo brivido; ora, provoca un certo disgusto.
Ma su questa questione – e sull'(omo)erotismo dell’arte classica più in generale – i testi murali e il catalogo tacciono, un’eredità, forse, dell’approccio archeologico all’arte antica che mette in primo piano questioni di diffusione geografica e autenticazione piuttosto che questioni di interpretazione e ricezione. Se riprendiamo da dove finisce “Antinous: Boy Made God” e ci rivolgiamo ai moderni – e ad altre forme d’arte – otteniamo un quadro molto più completo della tradizione di Antinous: Leggiamo i versi sensuali di Wilde, l’elegia sessualmente esplicita di Fernando Pessoa, il romanzo Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar – in cui un imperatore di mezza età ricorda di essere ringiovanito dal suo amore per Antinoo, e persino la nuova opera di Rufus Wainwright in cui l’imperatore fa sesso con il suo ragazzo amante sul palco. Se gli scultori antichi e i loro primi imitatori moderni hanno trasformato Antinoo da ragazzo a dio, questi artisti contemporanei lo rendono ancora una volta un ragazzo e ci spingono a vedere queste perfette statue bianche come monumenti a qualcosa di più umano, più mondano – e più sinistro – che “la gloria e la corona dell’arte dell’epoca”.
Vista dell’installazione di un calco del Townley Antinous, del calco di un busto ritratto di Adriano e dell’Elgin Germanicus, all’Ashmolean Museum, Oxford nel 2018.
‘Antinous: Boy Made God’ è all’Ashmolean Museum, Oxford fino al 24 febbraio.