‘Mio Dio perché mi hai abbandonato? Piegarsi significa mentire. Se c’è un dio, deve chiedermi perdono”. Questa è una famosa citazione che si dice sia stata scolpita in un muro di Mauthausen, uno dei numerosi campi di concentramento usati dai nazisti per sterminare gli ebrei. Il sentimento di questo verso dà parole a un sentimento che molti nel genere umano hanno provato, gridando in lacrime le loro miserie a un universo apparentemente freddo e disinteressato. Questa reazione emotiva al dolore e alla tragedia porta molti a guardare alle antiche parole di Epicuro come loro procuratore per presentare le loro accuse contro Dio; a Epicuro, Lattanzio attribuisce queste parole:

“Dio”, dice, “o vuole eliminare le cose cattive e non può,
o può ma non vuole,
o non vuole né può,
o sia vuole che può.
Se vuole e non può, allora è debole e questo non si applica a dio.
Se può ma non vuole, allora è dispettoso, il che è ugualmente estraneo alla natura di dio.
Se non vuole né può, è sia debole che dispettoso, e quindi non è un dio.
Se vuole e può, che è l’unica cosa adatta a un dio, da dove vengono allora le cose cattive? O perché non le elimina?

Lattanzio e i successivi apologeti cristiani hanno trovato questa accusa di Epicuro come probabilmente la questione più pressante che il cristianesimo deve affrontare; quindi, non è una risposta che può essere data alla leggera. Il personaggio di Orual in Till We Have Faces, la ricreazione di C.S. Lewis del mito di Psiche e Cupido, condivide questa messa in discussione degli dei poiché il suo aspetto orribile, il suo sangue reale e il suo padre crudele sembrano portarle solo miseria senza speranza di tregua. Maledice il Dio della Montagna Grigia come fonte della sua angoscia, citando le stesse lamentele che l’umanità ha tradizionalmente rivolto a Dio o agli dei: “Accuserò gli dei, specialmente il dio che vive sulla Montagna Grigia. Cioè, racconterò tutto quello che mi ha fatto fin dall’inizio, come se lo denunciassi davanti a un giudice. Ma non esiste un giudice tra gli dei e gli uomini”. Il viaggio di Orual attraverso la tragedia e l’autocommiserazione porta alla luce due fattori chiave nella reazione emotiva dell’umanità al problema del male che molti potrebbero non considerare in un primo momento: in primo luogo, la possibilità che possiamo giocare una parte importante nella creazione e nel mantenimento della nostra stessa miseria; in secondo luogo, la questione di cosa possiamo imparare dal silenzio verbale di un Dio onnipotente di fronte al dolore che sperimentiamo.

Giustamente o ingiustamente, Orual trova molte ragioni per essere amara e infelice nell’arco della sua vita: la bruttezza con cui è nata, la bellezza e la stupidità percepita di sua sorella Redival, la crudeltà fisica di suo padre nei suoi confronti, le sue responsabilità reali e il presunto tradimento della sorellastra Psiche. Soprattutto, crede che le sia stato negato l’amore in tutte le sue forme:

“Nessun uomo ti amerà, anche se hai dato la tua vita per lui, a meno che tu non abbia un bel viso. Così (non potrebbe essere?), gli dei non ti ameranno (per quanto tu cerchi di piacere loro, e qualunque cosa tu soffra) a meno che tu non abbia quella bellezza d’anima. In entrambe le gare, per l’amore degli uomini o per l’amore di un dio, i vincitori e i perdenti sono segnati dalla nascita. Noi portiamo la nostra bruttezza, in entrambi i tipi, con noi nel mondo, con essa il nostro destino”.

Il lettore troverà Orual un narratore molto imperfetto poiché può scrivere solo dalla sua limitata prospettiva. Si può sentire un senso di profonda ironia drammatica, specialmente se si ha familiarità con il compagno di saggistica di Lewis I quattro amori, quando i monologhi di Orual su ciò che ama si trasformano in spiegazioni dell’odio e dell’egoismo. Il monologo più stridente di Orual è quello in cui descrive la sua furia per il matrimonio di sua sorella con il Dio Grigio. Mette in chiaro che avrebbe preferito che Psiche fosse stata uccisa piuttosto che essere felice con un altro e non più in suo possesso. Orual, come avatar di tutta l’umanità, sperimenta ciò che Lewis scrive ne I quattro amori a proposito: “Se l’affetto è reso sovrano assoluto di una vita umana, i semi germineranno. L’Amore, diventato un dio, diventa un demone”.

Nella mente di Orual, la sua infelicità è fuori dal suo controllo mentre recita la parte dell’instancabile martire.

Diviene chiaro, tuttavia, che le vengono offerte possibilità di pace, e forse anche di felicità, ma le nega in favore del mantenimento della sua amarezza e del suo odio.

Quando guarda la bella valle oltre la Montagna Grigia, soffoca i sentimenti gioiosi che le porta:

‘”Perché il tuo cuore non dovrebbe danzare? È la misura della mia follia che il mio cuore ha quasi risposto: “Perché no? Ho dovuto ripetermi come una lezione le infinite ragioni che aveva per non danzare. Il mio cuore per ballare? Il mio a cui è stato tolto l’amore, io, la brutta principessa che non deve mai cercare altro amore, lo sguattero del re, il carceriere dell’odioso Redival, forse per essere assassinato o trasformato in mendicante alla morte di mio padre. … Non avevo forse ragione di lottare contro questo umore sciocco e felice? … La ragione lo richiedeva. Conoscevo troppo bene il mondo per credere a questo improvviso sorriso”.

Si potrebbe vedere la prima visione di questa valle meravigliosa come un dono degli dei a Orual, una rassicurazione inespressa che c’è bellezza e significato nell’universo, ma il suo ego (che rispecchia l’ego dell’umanità) non permetterebbe un tale pensiero. Orual intravede persino il palazzo del Dio della Montagna, quello in cui Psiche sosteneva di vivere, ma dubita e respinge persino i suoi stessi occhi in favore dell’incredulità e della rabbia. Rimane risoluta nella sua stretta al collo della sua tragedia e della sua disperazione senza intenzione di lasciarle andare, poi passa al torpore per evitare di valutare la sua parte nella propria tragedia: “Ora segnate ancora una volta la crudeltà degli dei. … La cosa più vicina a una difesa contro di loro … (è di essere) sobrio e duro al lavoro, di non sentire musica, di non guardare mai la terra o il cielo, e (soprattutto) di non amare nessuno’.

Questo porta alla potente domanda che ogni persona deve porsi: di quanta parte della nostra miseria siamo colpevoli? Diventa chiaro, man mano che il romanzo va avanti, che Orual prende i semi della tragedia che le sono stati donati da forze al di fuori del suo controllo e crea un giardino di miseria che può attribuire al proprio instancabile lavoro. Alla fine, le si rivela che è diventata proprio la dea Ungit che ha sempre disprezzato. In questo, l’apologeta potrebbe rispondere alle domande di Epicuro con domande proprie: Non siamo forse tutti Orual? Quando all’umanità viene offerto qualche mezzo di gioia per indebolire o sostituire la miseria, molti non rispondono spesso come lei: “Non lo voglio. Lo odio. Lo odio, lo odio, lo odio. Capisci” – forse l’intenzione di tenere la miseria come un amato trofeo? C’è una sorta di piacere perverso che si trae dalla lamentela?

Nel suo primo libro, la principale lamentela di Orual con il Dio della Montagna Grigia è la sua apparente mancanza di tentativo di rispondere a qualsiasi sua domanda o di salvarla dalla sua miseria, eppure lei sente che lui pretende costantemente cose da lei, cose da cui lei non riesce a separarsi. Lei spesso confonde il suo silenzio con l’odio, e un dio silenzioso è un eccellente capro espiatorio, poiché lei può anche assumere che la sua deliberata mancanza di risposte sia la sua incapacità di rispondere. All’inizio del suo primo libro, proclama che “il dio della montagna non mi risponderà”. Terrori e piaghe non sono una risposta”. Poi si chiede se il lettore dei saggi del libro potrebbe essere in grado di scoprire ‘se il dio avrebbe potuto difendersi se avesse fatto una risposta’, mostrando che lei aveva già deciso che il dio non aveva né poteva risponderle. Questo è un atteggiamento comune che molti hanno nei confronti del concetto stesso di Dio, come evidenziato dal livello virale di popolarità che la citazione di Walter dal campo di concentramento menzionato prima gode ancora, con molti che vedono il silenzio verbale di Dio come una prova schiacciante della sua riluttanza, incapacità, o semplicemente della sua non esistenza alla maniera epicurea.

Il secondo libro di Orual, tuttavia, la trova finalmente capace di esporre le sue lamentele davanti agli dei stessi. Con loro sotto processo e lei come accusatrice, gli dei sembrano molto più grandiosi e meno brutali di quanto lei avesse supposto. Si trova nella stessa posizione di Giobbe, solo per scoprire che tutto il romanticismo e la magniloquenza dei suoi scritti precedenti vengono eliminati quando comincia a leggerli. La grande narrazione che aveva scritto su tutta la sua vita è abbreviata alla sua vera e propria denuncia, che si rivela essere molto più simile al diario di un bambino egoista che a una grande memoria di un martire, come lei dice i suoi veri sentimenti riguardo agli dei che le hanno portato via la sorellastra Psiche:

‘Presa dove non possiamo seguire. Sarebbe molto meglio per noi se tu fossi ripugnante e famelica. Preferiremmo che tu bevessi il loro sangue piuttosto che rubare i loro cuori. Preferiremmo che fossero nostri e morti piuttosto che tuoi e resi immortali. Ma per rubarmi il suo amore, per farle vedere cose che non potevo vedere… oh, tu dirai (me lo hai sussurrato in questi quarant’anni) che avevo segni sufficienti che il suo palazzo era reale, avrei potuto conoscere la verità se avessi voluto. Ma come avrei potuto volerlo sapere? Dimmi questo. La ragazza era mia. Che diritto avevi di portarla via nelle tue terribili altezze? Dirai che ero geloso. Geloso di Psiche? Non finché era mia”.

Le domande di Epicuro sono rivolte all’umanità; il linguaggio di Orual si trasforma da parole di incapacità a quelle di rifiuto.

Si trova di fronte forse il principale peccato del genere umano: la volontà di possedere tutta la bellezza che non possiamo raggiungere da soli, di asservirla e metterla sotto i nostri piedi.

Comprende il senso del silenzio degli dei attraverso il significato rivelato delle sue stesse parole:

“La denuncia era la risposta. Aver sentito me stessa farla era la risposta. Gli uomini parlano con leggerezza di dire ciò che vogliono dire… Quando verrà il momento in cui sarai costretta a pronunciare finalmente il discorso che giace da anni al centro della tua anima, e che per tutto questo tempo hai ripetuto idiotamente, non parlerai di gioia delle parole. Ho visto bene perché gli dei non ci parlano apertamente, né ci lasciano rispondere. Finché la parola non può essere estratta da noi, perché dovrebbero ascoltare il balbettio che crediamo di intendere? Come possono incontrarci faccia a faccia finché non abbiamo dei volti?

La realizzazione di Orual delle sue intenzioni e la follia delle sue continue accuse riecheggia le parole della Teodicea Babilonese:

Adepto studioso, maestro di erudizione,
tu bestemmi nell’angoscia dei tuoi pensieri.
Il proposito divino è lontano come il cielo più intimo;
è troppo difficile da capire, la gente non può capirlo. Anche se si cerca di comprendere l’intenzione divina, la gente non può capirla.

La donna scopre di essere ‘ammutolita dalla gioia’ quando è in grado di vedere la sua miseria per quello che è, il frutto del suo stesso lavoro. Solo allora viene liberata dalla sua prigione personale per abbandonare il ciclo costante di lamentele nella sua anima, scambiandolo con una gioia silenziosa. Questo porta alla redenzione, la sua realizzazione come un battesimo della sua mente. Un apologeta potrebbe chiedere a uno che urla al cielo una richiesta di risposte: “Vorresti ancora una risposta se ti arrivasse sotto forma di un linguaggio penetrante e incomprensibile, uno che frantuma i timpani; o peggio ancora, la realizzazione che hai avuto la parte più grande nella tua stessa angoscia?” È una buffa abitudine del genere umano fare costantemente domande alle quali non vogliamo sentire una risposta; le chiamiamo retoriche. Forse se ascoltassimo veramente le nostre lamentele per quello che sono, potremmo riconoscere quanto suonino veramente ridicole molte delle nostre richieste. Solo dopo esserci finalmente fermati ad ascoltare potremmo sperimentare Dio come fece Elia, attraverso il silenzio che potrebbe anche condurli alla stessa gioiosa redenzione di Orual.

Ho suggerito che il rapporto di Orual con il Dio della Montagna Grigia ha numerose implicazioni apologetiche in quanto è parallelo al rapporto dell’umanità con Dio, le due più grandi sono la parte dell’umanità nella sua stessa miseria e il silenzio verbale di un Dio onnipotente di fronte alla tragedia. La situazione di Orual porta alla mente le domande di Epicuro stesso. Essendo sia versato in filosofia che in religione, l’apologeta si trova in un posto particolare, tra la brillante logica greca di Fox e l’oscura e densa comprensione del sacerdote di Ungit. Leggendo Till We Have Faces si potrebbe pensare che la posizione di Orual sia la posizione di tutta l’umanità, diffidente nel fidarsi o credere in qualcosa che non possiamo comprendere e quindi bloccata in un costante loop di miseria, in parte inevitabile ma molto auto-inflitta. Forse attraverso la scoperta di questo ciclo potrebbe finalmente finire, e potremmo aprirci alle risposte redentrici del Divino Silenzio. Orual, regina di Glome e accusatrice degli dei, scrive al meglio il principio a cui forse Lewis sperava che tutti i lettori della sua ultima opera narrativa arrivassero, abbandonando l’idea del dio dentro di lei e la pretesa vanagloriosa di “io sono” anche mentre la sua penna cade a terra e la vita stessa lascia il suo corpo:

“Ho finito il mio primo libro con le parole nessuna risposta. Ora so, Signore, perché tu non dai risposte. Tu stesso sei la risposta. Prima che le domande del tuo viso si spengano. Quale altra risposta basterebbe? Solo parole, parole; per essere condotti a combattere contro altre parole. A lungo ti ho odiato, a lungo ti ho temuto. Potrei…”.

Brian Walters, Alla ricerca del Santo Graal (Virtualbookworm.com, 2004), 165.

Lattanzio, Sulla rabbia di Dio, 13.19.

C S Lewis, Finché abbiamo i volti: A Myth Retold(Houghton Mifflin Harcourt), 3. Kindle edition.

Ibidem, 282.

Ibidem, 292.

C S Lewis, The Four Loves (Bridge Bilingual Classics. English-Chinese Bilingual Edition). (Harvest Book: Foreign Language Teaching and Research Press), posizione 1392-1393. Kindle edition.

Lewis, Till We Have Faces, 86-96.

Ibidem, 75-76.

Ibidem, 124.

Ibidem, 4.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.