Vi presentiamo i 50 migliori album del 2012 di Pitchfork. Come sempre, sia gli LP che gli EP sono eleggibili.

Lambchop
Mr. M

I due decenni di grazioso scricchiolio countrypolitano dei Lambchop sono segnati dal ritmo deliberato della musica della piccola orchestra – gli archi lenti e le chitarre che scorrono, i ritmi noncuranti e la voce ferma del frontman Kurt Wagner. Il languido passo sudista dei Lambchop sembra particolarmente anacronistico nell’era digitale, con la maggior parte delle canzoni dell’ornato e toccante Mr. M che impiegano almeno cinque minuti per raggiungere le loro estremità ellittiche. L’arduo movimento di questa band premia la persistenza.

Su Mr. M, Wagner guida Lambchop non solo con alcuni dei suoi canti più sontuosi fino ad oggi ma anche con alcune delle sue linee più vissute. Offre una visione panoramica del mondo come potrebbe essere in realtà – vulnerabile all’ira ma anche accogliente al calore, con fiumi fatti da ogni tipo di lacrima. Passa dalla meraviglia sentimentale di “Never My Love” all’arbitraggio di merda di “Buttons”, dalla curiosità infantile di “Gone Tomorrow” all’ellitticamente devastante “Nice Without Mercy”. Siediti e medita un po’, chiede il signore di Nashville; il suono è sicuramente piacevole. –Grayson Currin

Lambchop: If Not I’ll Just Die

Crystal Castles
(III)

Il rumoroso suono goth-pop/electro-punk di Alice Glass e Ethan Kath è così specifico che può sembrare che i loro tre album senza titolo facciano parte di un’unica serie che si approfondisce lentamente. Negli articoli che circondano (III), il loro album più coerente dal punto di vista sonoro e inesorabilmente cupo, Glass ha parlato più del solito dei suoi testi. Dato che il suo canto è così sepolto nel rumore, spesso non si pensa a parole specifiche quando si ascoltano i Crystal Castles, così è stato interessante scavare sotto la gelida distorsione. Qui, le parole erano importanti: (III) è piena di meditazioni sullo sfruttamento di donne e bambini e sull’oppressione religiosa da abbinare a quelle voci asfissianti. “Sono a un passo dall’essere un vigilante per proteggere la gente e portare giustizia alle persone che amo”, ha detto Glass in un’intervista. Dove i Crystal Castles una volta sembravano stilisti senza sostanza, con (III), hanno realizzato un album di musica di protesta infestata. –Brandon Stosuy

Crystal Castles: “Wrath of God” (via SoundCloud)

Crystal Castles: “Affection” (via SoundCloud)

Peaking Lights
Lucifer

L’amore di Lucifer per i loop psych-dub colorati al neon continua senza sosta in Lucifer, e se c’è meno fuzz in questo disco, ci sono ancora strati di ripetizioni beatifiche in cui perdersi. Lucifer è strutturato come un giorno, aprendo con “Moonrise” e chiudendo con “Morning Star”, e lungo la strada passando dalla luminosità sveglia di “Beautiful Son” all’eco oscura di “Lo Hi” di nuovo attraverso l’alba scintillante di “Dreambeat”. La semplice progressione rispecchia la serietà infantile delle melodie, che potrebbero calmare il bambino più avvilito (conosco almeno un neonato che può testimoniarlo). Ma l’innocenza musicale di Peaking Lights è sia genuina che fuorviante. Ci sono rumori oscuri e profonde correnti sotterranee su Lucifer, che riflettono il personaggio titolare dell’album, il cui nome è sinonimo sia di Venere, portatrice di vita, che del diavolo. Ed è in questa risoluzione di contraddizioni che l’album trova il suo vero potere. –Marc Masters

Peaking Lights: “Beautiful Son” (via SoundCloud)

Peaking Lights: “Lo Hi” (via SoundCloud)

Pallbearer
Sorrow and Extinction

L’hype è una droga incredibile. In certi ambienti, questo album sembrava destinato alla grandezza prima ancora di essere messo su carta e ha più che mantenuto la promessa del demo del 2009 del gruppo dell’Arkansas. Sorrow and Extinction è commovente, aggraziato e devastante. Ma ciò che separa i Pallbearer dal milione e mezzo di altre doom band è l’anima. La musica dei Pallbearer è diretta e ben eseguita, ma l’atmosfera – il sentimento, amico – che riescono a trasmettere usando il modello classico del doom metal e le sfumature gotiche del sud è magico. La voce di Brett Campbell è potente e imperfetta, il mezzo perfetto per scandagliare le profondità di miseria e redenzione che rendono il doom doom. I Pallbearer sanno cosa vuol dire soffrire, essere soli, senza direzione e soffocati, e alleviano la loro sofferenza nell’unico modo che conoscono: invocando gli spiriti di Saint Vitus, Candlemass, e il bourbon economico del Kentucky, incrociando le dita, e accordando il basso. –Kim Kelly

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Rustie
Essential Mix

Quando Russell Whyte si è seduto per registrare la sua puntata di due ore della serie “Essential Mix” della BBC la notte prima della messa in onda in aprile, non aveva un grande piano in mente. Non aveva intenzione di collegare i punti tra i suoi suoni estatici – molti dei quali sembrano citare la musica a stelle e strisce di Mario Kart come influenza guida – e quelli di artisti hip-hop, dance e R&B sia over che underground. Ma un mix come questo è uno sbocco ideale per abbattere presunti muri musicali; è dove l’inarrestabile “Goooo” dei TNGHT può stendere il tappeto rosso per Rick Ross, o dove i Clams Casino possono rendere “Geeked Up Off Them Bars” di Juicy J molto più geek, o dove Nicki Minaj può condividere alcuni minuti di minimalismo duro con l’emergente fabbrica di banger di Brooklyn Baauer. Rustie non stava cercando di definire il futuro, e questo è probabilmente il motivo per cui lo ha fatto con tale facilità.

Ma pensare al futuro può causare un po’ di confusione nel presente. Quando ho beccato il ventinovenne di Glasgow alla Webster Hall di Manhattan a settembre, il posto era pieno di una miscela unica di club bros a torso nudo, ragazzi rap col cappello abbassato e qualche nerd. Così, quando un amico ubriaco ha sfiorato un tizio hip-hop che annuiva, le cose si sono fatte un po’ tese. “Toccami ancora una volta e ti uccido”, ha detto il tizio. “Non ti credo”, ha risposto l’amico ubriaco. Si sono separati. Ma poi, da qualche parte tra “Mercy” di Kanye e “Ultra Thizz” di Rustie, i due si sono scambiati calde scuse di birra. La Grande distensione di Rustie del 2012 era sicura. –Ryan Dombal

Rustie: BBC Essential Mix (via SoundCloud)

El-P
Cancer for Cure

La collaborazione del 2012 di El-P con Killer Mike, R.A.P. Music, è stato il duro gancio sinistro alla mascella, ma il suo disco da solista Cancer for Cure è stato il colpo di grazia, quello che ti ha fatto rimbombare le budella, ti ha lasciato nauseato e confuso. La solitudine ha sempre fatto bene a El-P, e in questo disco ne è uscito con un disco così denso e interno che era impossibile discernere il ronzio delle macchine da quello della sua mente. El ha lasciato che i suoi nervi balbettanti sanguinassero in ogni angolo del suo mix minuziosamente pasticciato, borbottando, urlando e supplicando con la stessa irresistibile combinazione di confessione e oscurità che ha sempre caratterizzato la sua musica. In “For My Upstairs Neighbor”, ferma una donna abusata con un tocco del braccio, dicendole: “Deve aver impiegato ogni muscolo del tuo corpo per produrre quel piccolo tic che probabilmente pensavi stesse passando per un sorriso… Ma ho letto i racconti, conosco la sacra arte del bluff”. La connessione è così vivida perché El ha speso l’album, e la sua carriera, dipingendosi come uno spirito affine: Cancer for Cure è quello che si prova quando un urlo non lascia mai il tuo cervello. –Jayson Greene

El-P: “The Full Retard”

METZ
METZ

La tecnologia per alzare la chitarra a livelli enormi, da far saltare le orecchie, può essere acquistata al banco, ma le band che possono tirare fuori il volume inducendo claustrofobia sono qualcosa di speciale. I Metz sono una di queste band. Il debutto del trio di Toronto alla Sub Pop è puro pummel e bruttezza nel senso migliore. La batteria tuona come se fosse stata presa a randellate in fondo al pozzo di un ascensore. Il basso e la chitarra martellano schemi minimalisti attraverso una cortina di fuzz e grinta. Le canzoni suonano dal vivo, non nel senso che sono state registrate così come sono state eseguite, ma nel modo che rappresenta come suonano i gruppi rumorosi quando si presentano in un club sudicio con pareti di cemento. Le alte frequenze rimbalzano attraverso il campo stereo. Le voci sembrano sfornate di feedback e mezzo strangolate. Ci sono momenti in cui i Metz tradiscono un piccolo debito con il grunge, ma la maggior parte del tempo, sono fuori sulla loro propria lunghezza d’onda bizzarra, cantando di ratti, instabilità mentale, o qualsiasi altra cosa evochi appropriati livelli di ansia. –Aaron Leitko

Metz: “Wet Blanket”

Metz: “Headache”

Mac DeMarco
2

La persona di Mac DeMarco è così volutamente viscida (nelle interviste, ha parlato di come una volta si sia infilato il pollice nel buco del culo e poi se lo sia messo in bocca durante un concerto e di come una volta abbia svolto un lavoro mettendo animali domestici morti in sacchi per cadaveri) che ci si potrebbe aspettare che la sua musica sia altrettanto buttata via e infantile. Ma il suo talento è vero. Il secondo disco dell’anno di DeMarco, 2, è assolutamente unto; le sue imprevedibili e rumorose melodie di chitarra si elevano al di sopra della produzione deformata e si mettono in mostra con una chiarezza rilassata e lubrificata che è più “Sultans of Swing” che sciatto slacker. Il fatto che il singolo principale “My Kind of Woman” sia stato paragonato a Cass McCombs ha sollevato qualche problema di autenticità; qui c’è un ragazzo precedentemente conosciuto come Makeout Videotape il cui ultimo disco si occupava di glamour dissoluto ora gioca a fare il sensibile troubadour. Ma tutti soffrono di crepacuore, e 2 sparava sguardi stancamente accettanti su quella che sembrava una situazione familiare senza speranza: un padre appiccicoso con un problema di metanfetamine. Qualunque sia la verità letterale della persona di DeMarco su 2, almeno qualcuno si sta sforzando di interpretare il provocatore – e senza sminuire la sua musica come parte dell’atto. –Laura Snapes

Mac DeMarco: “Ode to Viceroy” (via SoundCloud)

Mac DeMarco: “My Kind of Woman” (via SoundCloud)

Rick Ross
Rich Forever

A questo punto conosciamo tutti le aspirazioni fantasy di Rick Ross: Big Meech, Larry Hoover, John Lennon, imprenditore di Wingstop. Ma il miglior rapper vivente? Questo non è un mixtape che esce e lo dice come Dedication 2 di Wayne o We Got It 4 Cheap, Vol. 2 dei Clipse, ma c’era qualcosa di immediatamente diverso negli obiettivi di Rich Forever – e non è solo il fatto che uno dei più orgogliosi capitalisti americani stava rilasciando 79 minuti di musica ridicolmente costosa gratuitamente. Quando è uscito il 6 gennaio, Rozay ha messo l’hip-hop sull’avviso che il resto del 2012 sarebbe stato governato sotto la sua legge marziale; il benevolo, caricaturale signore supremo di Teflon Don diventa qualcosa di vicino a un tiranno spaventosamente reale su Rich Forever, e ogni parvenza di concessione pop è schiacciata da beat dominanti in stile Lex Luger e versi immediatamente citabili, da ascoltare assolutamente, che possono essere presi come una minaccia per chiunque non appaia sul nastro. Quelli che lo hanno fatto– 2 Chainz, French Montana, Meek Mill, Drake, Wale, Future, solo per nominarne alcuni– andrebbero a dividere e conquistare le classifiche quest’anno dopo essersi riuniti in tracce come “Stay Schemin'”, “Fuck ‘Em”, e “MMG The World Is Ours”, singoli di strada che ancora sono riusciti a infiltrarsi nel mainstream e a rendere la release commerciale di Ross God Forgives, I Don’t relativamente sicura e dimenticabile abbastanza da guadagnare una nomination ai Grammy. –Ian Cohen

Rick Ross: Keys to the Crib

Dum Dum Girls
End of Daze EP

End of Daze deve parte del suo successo al puro suono della voce di Dee Dee, improvvisamente così piena di velluto e imperscrutabile rimpianto. Ma anche al velo nero, al modo drammatico in cui la dispiegava, intonando “I want to live a pure life” su “Lord Knows” come una donna che affronta coraggiosamente un plotone d’esecuzione per peccati senza nome. Ogni gesto su End of Daze risuonava di quel carisma preternaturale, il tipo di magnetismo ingiustamente distribuito che grida “Budding Rock Star”, che fosse la progressione di accordi di “Crimson and Clover” di “Lord Knows” o la splendida cover centrale di “Trees and Flowers” di Strawberry Switchblade. La sua versione non era altro che una singola chitarra scintillante e un sospiro, ma creava una calda sensazione di isolamento e solitudine abbastanza profonda da viverci dentro. –Jayson Greene

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